Cos’è la rivoluzione verde?

rivoluzione verde

Il più grande avanzamento tecnologico dal punto di vista della coltivazione della terra è avvenuto nella seconda metà del secolo scorso ed è stato chiamato «Rivoluzione Verde».

Il nome sembrerebbe alludere a una rivoluzione «ecologica». In realtà il termine «verde» è fuorviante.

La Rivoluzione Verde: cenni storici

Con Rivoluzione Verde si intende infatti un approccio innovativo alla produzione agricola. Tutto ciò è avvenuto attraverso l’impiego di varietà vegetali geneticamente selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci.

rivoluzione verde

Oltre ad altri investimenti di capitale per quanto concerne nuovi mezzi tecnici questo ha consentito un incremento significativo delle produzioni agricole in gran parte del mondo nei decenni che vanno dal 1940 al 1970.

Si parla, in sostanza, dell’applicazione dei sistemi industriali più spinti al mondo dell’agricoltura. Produzione su larga scala, impiego di tecnologia chimica e macchinari tecnologici con lo scopo di produrre più cibo. Perché  se la popolazione nel mondo sta aumentando vertiginosamente, c’è bisogno di produrre più cibo per sfamare tutti. Questo è ancora oggi il pensiero dominante.

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La rivoluzione verde si basa su due capisaldi

Il primo è il sistema delle monocolture intensive. Ci sono aziende che coltivano una distesa infinita di terreno piantando un unico tipo di seme, in modo da produrre in maniera intensiva un solo tipo di pianta. Per evitare che animali o parassiti possano rovinare il raccolto, ci sono aerei che sorvolano i campi e spargono dall’alto fertilizzanti, concimi, pesticidi e fitofarmaci.

Rivoluzione-verde

Il secondo caposaldo dell’agricoltura moderna è il sistema dei trasporti. Una volta ottimizzata la quantità di cibo prodotta, bisogna permettere c
he questo determinato cibo, coltivato in una sola parte del mondo, possa essere esportato ovunque. Anche dalla parte opposta del globo, per finire in tutti i supermercati. Le banane coltivate in Brasile vengono mangiate in Europa, i pomodori coltivati in Spagna vengono esportati in Australia, e così via.

La modalità di coltivazione della Rivoluzione Verde ha effettivamente aumentato la produzione di cibo. Ma a che costi?
Per produrre una caloria alimentare di cui ci cibiamo vengono investite circa 7,3 calorie. Queste vengono spese nei vari passaggi del sistema produttivo agroalimentare, dal momento della semina fino al trasporto nel punto vendita. (fonte: Life Cycle-Based Sustainability Indicators for Assessment of the U.S. Food System, University of Michigan).

Solo il lavoro dell’industria agroalimentare consuma già più calorie di quelle che produce: 1,6 kcal. Poi vanno aggiunte 2,3 kcal, spese per la preparazione del cibo e la sua conservazione. Altra mezza caloria è spesa dal servizio commerciale all’ingrosso e 0,3 calorie sono spese dal punto di rivendita al dettaglio. Inoltre, mezza caloria è spesa per l’imballaggio, 1,2 calorie per la lavorazione e un’altra caloria per il trasporto. Insomma, il nostro sistema è un sistema dispendioso.

E non solo. L’utilizzo di prodotti chimici e tecnologie particolari produce anche effetti inquinanti da non sottovalutare. Tant’è che le zone più inquinate del nostro pianeta sono quelle in cui si trovano grandi conglomerati industriali, ma anche quelle in cui si coltiva in modo intensivo. La Pianura Padana ne è un esempio.
Tra gli effetti negativi dell’agricoltura intensiva e dell’annesso sistema di distribuzione non vi è solo l’inquinamento.

Vi è anche un calo drammatico della varietà e della qualità del cibo prodotto.

Perché in nome dell’abbondanza, per ottimizzare al massimo la produzione, la monocoltura si concentra ovviamente sulla coltivazione di poche varietà di semi selezionati e geneticamente modificati. Al fine di renderli più resistenti ai parassiti e alle intemperie. Non interessa se i frutti e le verdure saranno buoni e salutari. È più importante che siano tanti, e resistenti. La necessità è quella di arrivare sulle tavole di tutti, di vendere il più possibile, e ai costi di produzione più bassi possibili. È una vera e propria industria, quella alimentare.
Questo ha portato a perdere molta della biodiversità che i nostri nonni ci avevano lasciato.

Qualche numero?

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Dati del 1903 parlano di 3879 varietà di tipologie di ortaggi «censiti». Nel 1983 le varietà erano già scese a 307: un dodicesimo (fonte: National Storage Seed Laboratory). Prendiamo il caso dei cetrioli. Nel 1903 c’erano ben 285 tipi di cetrioli. Nel 1983 il loro numero si era ridotto a sole 16 varietà.

Non conosco i dati aggiornati a oggi, ma possiamo ragionevolmente dedurre che la situazione non sia migliorata. Se pensi alle mele ad esempio, al supermercato ormai ne trovi solo 3 tipi (gialle, verdi e rosse).

 

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